13 dicembre 2010

Gerry di Gus Van Sant


Regia: Gus Van Sant
Sceneggiatura: Casey Affleck, Matt Damon, Gus Van Sant
Fotografia: Harris Savides - (colore)
Musica: Arvo Pärt
Montaggio: Casey Affleck, Matt Damon, Gus Van Sant
Interpreti: Casey Affleck (Gerry), Matt Damon (Gerry)
Produzione: Epsilon Motion Pictures (USA); My Cactus (USA)
Distribuzione: Cinematografica Distributori Indipendenti (CDI)
Lunghezza: (103')
Anno di uscita: 2002 (Usa) - 2003 (Ita)
Note: Premio per la migliore fotografia al New York Film Critics Circle Awards (2003) - Premio "Special Citation" al Toronto International Film Festival (2002)



Sinossi

Due uomini guidano in silenzio su una strada isolata che costeggia le montagne. Tutto è tranquillo. Una volta fermati scendono e iniziano a percorrere un sentiero sterrato verso la montagna, senza portare nulla con loro. Non hanno né zaino, né mappa.


Analisi

Credo che si possa definire Gerry, una pellicola sull'invisibile.
Van Sant sceglie la non-narrazione riportando alla luce la vera essenza espressiva dell'arte.
Gerry non è un film nato per raccontarci “qualcosa” ma per farci vivere, percepire, sentire, ascoltare e vedere qualcosa. Ed è proprio questa assenza di trama che costringe lo spettatore all'empatia.
Attraverso il suo nulla assoluto (di storia, di luogo, di tempo) riesce a riprodurre il sentire percettivo ed emozionale dello smarrimento e della ricerca di senso.
Ogni singolo elemento è immobile, silenzioso, indifferente e “altro” rispetto alla condizione umana, così fragile e precaria. Vediamo come il paesaggio schiacci la figura dell'uomo e la rileghi ad essere un dettaglio o semplicemente una voce che chiama a vuoto: “Gerry!”. Anche quando i suoni della natura si fanno minacciosi (ricordandoci a tratti l'Antichrist di Lars Von Trier) nessun pericolo visibile è realmente presente. Soffermandosi sul paesaggio roccioso ritorna alla memoria il cinema classico americano di John Ford. Van Sant sostituisce le interminabili cavalcate di The Searchers (Sentieri Selvaggi) con il  viaggio alla deriva di due Gerry qualunque. Ma quello che osserviamo in scena è un'operazione neorealista: senza la condivisione fittizia ed esemplificata della narrazione classica allo spettatore rimane quella dettata dal suo “sentire”. Il viaggio viene dunque compiuto dai protagonisti e nello stesso modo da chi li guarda. E' infatti impossibile distaccarsi dal contatto con quello che essi vivono, è impossibile non “gerryzzarsi”.
La rappresentazione di ciò che è irrappresentabile dunque, non può che passare attraverso la delicatezza della visione. Solo attraverso questo tipo di osservazione silenziosa lo spettatore può stabilire una vera empatia con il viaggio di esplorazione del protagonista.
Per portare ad una crescita, spesso arriviamo a dover abbandonare sul cammino una parte di noi stessi, esattamente come Gerry, che si ritrova a strangolare l'altra parte dì sé, il suo omonimo, per poter uscire dal deserto. Proprio come lo stesso regista (che con le inquadrature di “inseguimento” cita e omaggia Béla Tarr), ci ritroviamo a seguire i due personaggi camminare per ore, giorni, forse anni osservando e sentendoci parte della personale esperienza di disorientamento e disperazione che vivono. Questa incredibile partecipazione priva di suoni, non può che essere un miracolo artistico e comunicativo, reso efficace dalla quasi assente sceneggiatura e dall'utilizzo del paesaggio naturale come mezzo di espressione. Il deserto, le montagne e le nubi in movimento (che diventeranno, anche nelle opere successive, un tratto distintivo dell'autore) sembrano sfidare tutto con la loro indifferente neutralità e con la loro bellezza accecante; tanto da rendere ancora più evidente la condizione misera dei personaggi: sempre più esausti, bruciati dal sole e privi di identità.
Ma quella che mette in atto il regista è quasi un'operazione dadaista: invadere la perfezione (della natura e del cinema classico americano) per far entrare la luce imperfetta di una sensibilità differente. Un'azione questa, che Van San aveva precedentemente elaborato in Pshyco distorcendo l'opera assoluta di Hitchcock.
Ritrovandoci nel famigliare scenario della Death Valley ogni elemento risulta differente: questi due “cowboy” americani riflettono una società che vaga nella perdizione e nella ricerca di una indefinita “cosa” che è in realtà poi irrilevante trovare. E' quindi il paesaggio che ci indica la via per l'anti-cinema di Van Sant, così come, sempre lui si fa metafora dell'isolamento e della frustrazione dei due Gerry. 
Possiamo dedurre che in fondo, all'interno del film, ogni elemento non visivo sia del tutto irrilevante. Chi siano questi uomini, di cosa parlino, dove e perché siano lì, che cosa cerchino e che rapporto abbiano, sono informazioni del tutto inutili da sapere. L'unica cosa che conta è quello che vediamo e cioè quello che essi vivono e sentono in questo presente infinito e distorto. Alla fine del viaggio, camminando come zombie arrivano in un luogo metafisico in cui l'unica cosa che resta da vivere è la morte. Ed è proprio da qui che inizierà Elephant: all'interno di un nulla formato solo da sabbia bianca in cui si uccide esclusivamente per poter uscire vivi dal proprio stato di disperazione.